Il bolo armeno o bolo armenico è un minerale contenente una quantità variabile di ossidi ferrosi, untuoso al tatto e di colore rossastro, usato come strato adesivo al di sotto della foglia d’oro nella doratura degli oggetti non metallici. Esso era utilizzato nella produzione delle icone.
Il bolo, inoltre, ricavato da particolari terre argillose, anticamente era anche e soprattutto utilizzato come rimedio per la cura delle ferite e di alcune malattie prodotte dal morso di animali velenosi; miscelato ad altri componenti era pure usato per la cura delle affezioni gastroenteriche con sintomatologia di tipo diarroico. Ed infatti, esso era indispensabile per costituire la cosiddetta aqua antidysenterica, molto usata nel XVII e XVIII secolo.
Orbene, secondo quanto ci riferisce lo storico neretino Giovan Bernardino Tafuri (1695-1760), nel territorio di Nardò, ed in particolare nel feudo di S.Teodoro, vi era una vera e propria miniera di bolo armeno, con qualità sovrapponibili a quelle del bolo armeno che si produceva anticamente nell’isola di Lemno, ai tempi di Galeno. Più precisamente, il Tafuri, nella sua descrizione del territorio di Nardò, così riporta: vedesi in questo territorio, e particolarmente nel feudo di S. Teodoro, la miniera del bolo armeno, non dissimile nel sapore e nella facoltà da quello di cui fece menzione Galieno ritrovarsi nell’isola di Lemno, onde chiamossi terra Lemnia. Il suo colore si accosta al roseo oscuro di sostanza pingue, densa e tenace talmente che fortemente s’attacca, accostandosi alle labbra, ed incontanente si disfà mettendosi nell’acqua. Vien tenuto in istima dagli speziali come necessaria per le loro confezioni[1].
Maggiori informazioni sulla natura e proprietà del bolo armeno ce le fornisce il medico umanista di Leverano, Girolamo Marciano (1571-1628). Questi, infatti, nella descrizione che fece, ai principi del 1600, “delle specie delle pietre, terre, minerali, ed altre cose sotterranee di questa provincia” di Terra d’Otranto, così riporta: “Quanto alle specie delle terre che servono all’uso della pittura, e per fare vasi di varie sorte, ivi si trova la terra Lemnia e l’Armena di colore, odore, sapore e proprietà simile a quella che narra Galeno dell’isola di Lemno e dell’Armenia ed in abbondanza nel cavare che si fanno i pozzi, le cisterne, le grotte e le voragini in molti luoghi del paese ed in particolare nella città di Matera, se ne ava di colore flavo, citrino, rosso e misto che declina al celeste, di sostanza pingue densa e tenace che si attacca fortemente alla lingua e nell’acqua si disfà con celerità bollendo. Di queste se ne portano assai in Venezia, in Napoli ed in altri luoghi d’Italia e si vendono per terra Lemnia o bolo armeno”[2]. Più avanti il Marciano, riparlando del bolo armeno prodotto a Matera, riporta le sue indicazioni mediche: “ch’è ottimo rimedio a sanare le ferite,i flussi di sangue ed i morsi di animali velenosi”. L’autore, poi, riporta un’ulteriore proprietà del bolo armeno o meglio dei vasi prodotti con tale particolare argilla e cioè che “bevendosi (in essi) resistono al veleno ed alle febbri maligne”[3].
Ma l’indicazione principe del bolo armeno era rappresentata dalla dissenteria. Ed infatti,un’antica pozione prevedeva l’uso del bolo armeno che, miscelato con altri prodotti naturali, secondo una procedura del tutto particolare, consentiva di costituire la cosiddetta aqua antidysenterica. La preparazione della pozione prevedeva di far essiccare nel forno, a fuoco basso, pane, prugne selvatiche, cotogno, nespole e sorbe, quindi si pestava il tutto aggiungendovi la radice di Acoro, noce moscata, noci di gallo e fiori di melograno. A tale preparato si aggiungeva, quindi, polvere di terra sigillata e bolo armeno ed il tutto veniva immesso e chiuso ermeticamente in un alambicco di vetro contenente acqua distillata. Così riempito l’alambicco veniva lasciato, per otto giorni, sotto il letame, dopodiché se ne distillava il contenuto e l’aqua antidysenterica era pronta. Questa era utilizzata , per l’appunto, per curare la dissenteria e per gli altri corsi di ventre e la dose di utilizzo andava da un’oncia fino a quattro (v. figura).
Tornando al Tafuri, dallo stesso apprendiamo, quindi, che tale bolo armeno era presente in grande quantità nel feudo di S. Teodoro che era uno dei 24 feudi del territorio di Nardò e che, all’epoca dell’autore (1695-1760), era posseduto dal barone Bartolomeo Massa[4].
Il feudo di S.Teodoro
Esso era localizzato a circa 12 Km a nord di Nardò, verso il territorio dell’Arneo, a nord dell’attuale strada provinciale Veglie – Porto Cesareo.
Il feudo prendeva tale nome perché su di esso anticamente insisteva una chiesa intitolata allo stesso Santo. Di tale chiesa, infatti, si legge su di un antico instrumento dell’anno 1099, con cui il conte Goffredo donava al monastero di S. Maria de Nerito la stessa ecclesia ….. quae vocatur Sanctus Theodorus, iuxta locum Dernei, cum omnibus suis pertinentiis, mobilibus et stabilibus iuxta fines ibi positos[5]. La chiesa con le sue pertinenze doveva rivestire certamente molta importanza se sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181) fu inviata al monastero di S.Maria de Nerito una bolla papale con cui si avallava l’operato del legato apostolico nel regno di Sicilia, il cardinale di Santo Eustachio, che aveva riconfermato al monastero neretino la proprietà della chiesa cum omnibus eius bonis[6].
Nel XIV secolo le pertinenze della chiesa di S.Teodoro sono sempre nella proprietà dell’Ecclesia et Mensa Episcopale ed infatti da un transunto di un instrumento del 1335 apprendiamo che in territori Sancti Theodori, in tenimento de Derneo, essa possedeva pleno iure un appezzamento di due ortali di terra che si era soliti concedere in contractibus emphiteosis[7]. La consessione in enfiteusi dei terreni coltivabili col verosimile utilizzo da parte degli enfiteuti di case rurali preesistenti o costruite ex novo, di fatto portarono alla strutturazione e nascita di una vera e propria masseria identificata con lo stesso nome della chiesa e del territorio su cui essa insisteva. Ed infatti in uno instrumentum confectum nell’anno 1493, in cui si ribadisce il recupero del pieno diritto di possesso della Chiesa e Mensa episcopale neretina sulla masseria di cui sopra, si menziona una precedente concessione in enfiteusi della masseria a favore di un tal Damiano Schavone di Leverano, dal nome del quale la masseria avrebbe mutuato una nuova denominazione trasformando l’originario nome di massaria de Sancto Theodoro in quello di massaria delli Schavuni[8].
In verità, tra il XV e il XVI secolo, assistiamo alla nascita di altre masserie all’interno del feudo di S. Teodoro, generalmente a seguito della concessione in enfiteusi, con successivi melioramenti di fabrica, di proprietà terriere della Mensa Vescovile di Nardò o anche per iniziative di proprietari appartenenti al ceto nobile.
Tra i vescovi che a tal riguardo si adoperarono, una menzione particolare merita Gabriele Setario (1491-1507) che con riferimento all’altra masseria di proprietà della diocesi neretina detta di Donna Menga, edificata intorno alla cappella della Natività di Maria Vergine, ne favorì la nascita o l’ampliamento dei fabbricati nel 1493, conferendo un terreno di sua pertinenza in enfiteusi ai fratelli Stefano, Angelo e Giovanni di Castellaneta[9].
Nel 1558 molte proprietà terriere del feudo di S. Teodoro appartenevano al nobile Elia Salazar o Saczar o anche Sazzara. Questi nel 1562, all’età di circa 56 anni, risultava essere domiciliato in Veglie[10] e non è escluso che avesse già la proprietà della masseria che più tardi conosceremo essere chiamata, con evidente riferimento onomastico, masseria de lo Sazara.
Nel 1589 il vescovo Fabio Fornari conferisce in enfiteusi le tre masserie Donna Menga, de li Shiavoni e Homo Morto. Tutte e tre rientreranno nel possesso della Mensa Vescovile nel 1603, durante il vescovato di mons. Lelio Landi, con atto rogato dal notaio Pietro Torricchio di Nardò, col quale Paolo de Nestore junior, attraverso il tesoriere Giulio Cesare Rapanà cede le masserie al vescovo [11].
A questi, nel 1610, prestarono obbedienza ben 42 arcipreti officianti nei vari comuni, casali e territori della diocesi. Tra questi vi è anche il canonico responsabile della chiesa di S. Teodoro[12].
Nel 1613 la masseria di Donna Menga, sempre di proprietà delle Chiesa, confina ad est con le terre della masseria di Giò Thomas Massa, detta di S. Teodoro, con la massaria delli Schiavoni per il tramite della via vicinale; ad ovest confina con la massaria dell’Homo Morto; a nord con la massaria … detta li Grey di Lucio della Ratta; a sud – est confina con la massaria delli heredi di Luca Giò Valentino di Copertino[13].
Nel 1637 il feudo di S. Teodoro, in parte di proprietà del barone Massa, rientra nella giurisdizione ecclesiastica della terra rurale detta di Sanctus Theodorus, che è una delle 27 terre rurali in cui è divisa la diocesi di Nardò, tutte rette da un arcipresbitero[14].
La masseria de lo Sazzara (oggi Zanzara), già appartenuta alla sopramenzionata nobile famiglia Sazzara, nel 1750 risulta nella proprietà di Francesco Carignano, duca di Novoli e marchese di Trepuzzi[15].
Da un protocollo notarile del 31.12.1751, redatto dal notaio neretino Nicola Bona, apprendiamo che il feudo di S. Teodoro veniva anche chiamato di S.Totaro. Esso apparteneva sempre al territorio di Nardò che si era nel frattempo arricchito, rispetto al XV secolo, di altri due feudi, contando un totale di 26 feudi[16].
Nel periodo compreso tra il 1850 e il 1877, a causa delle persecuzioni subite da mons. Luigi Vetta (1849-1873) che di fatto impedirono l’usuale rito di obbedienza dei canonici nei confronti del pastore diocesano[17], la maggior parte delle abazie e chiese dei casali e villaggi cessarono di essere attive. Tra queste anche la chiesa di S.Teodoro[18].
[1] M.Tafuri, Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura,. Giò Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò, Napoli 1848, vol. I, 356.
[2] G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Napoli 1885, rist. Congedo Ed. 1996, 193.
[3] Ibidem, 441. Il che, ovviamente è da intendersi un’enfatizzazione, attinente ai tempi, delle facoltà benefiche del bolo armeno.
[4] Tafuri, Opere cit., 361.
[5] M.Pastore, Le Pergamene della Curia Capitolo di Nardò, Lecce 1964, 8 n. 3.
[6] Ibidem, 10 n. 22.
[7] Ibidem, 10 n. 23.
[8] Ibidem, 10 n. 24.
[9] E.Mazzarella, Nardò Sacra, a cura di Marcello Gaballo, Galatina 1999, 383.
[10] A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1927, 270-271. I Sazzara o Salazar erano una nobile famiglia di Terra d’Otranto. Il primo della famiglia di cui si ha notizia è il nobile Elia Saczara. Egli, a come ci riferisce il Foscarini, è citato su alcuni documenti conservati nell’Archivio di Stato di Napoli (Partium della Summaria, vol. 341, c. 92 e vol. 419, c. 231; Repertorio dei Quinternioni, vol. 2, anno 1608) dove è indifferentemente appellato ora Salazar ed ora Saczara. Ebbe molti figli (Achille, Cesare, Pompeo, Marcantonio ed Annibale) e discendenti che nei tempi successivi si spostarono a Galatone, Lecce e Nardò e furono indicati con il cognome Sazzara (Archivio di Stato di Napoli, Numerazione dei fuochi di Galatone; Archivio di Stato di Lecce, atti del notaio Gio’ Fancesco Garrapa, Capitoli matrimoniali del 9 novembre 1635, matrimonio tra Giuseppe Sazzara e Lucrezia Simonetta di Mario Barone di Zollino). L’arme dei Sazzara: di rosso a 13 stelle d’oro.
[11] ASL, Protocolli notarili P.Torricchio, 66/4, 1603, c.121; Mazzarella, Nardò cit., 383.
[12] Mazzarella, Nardò cit., 57-58.
[13] Mazzarella, Nardò cit., 383 n.55. E’ possibile che l’attuale masseria Trappeto, sul cui portale d’ingresso è scolpito lo stemma dei Massa, possa identificarsi con l’antica masseria di S. Teodoro. Rimane però da spiegare quale delle attuali masserie sia quella degli Schiavoni, considerando che nel 1493 con tale nome si indicava la masseria di S. Teodoro (v. supra) mentre, nel 1613, le due masserie, quella di S.Teodoro e quella degli Schiavoni appaiono due entità diverse.
[14] Biblioteca Apostolica Vaticana, Relationes ad limina per Mons. F. Chigi, 1637, ms; D.G.De Pascalis, Nardò. Il centro storico, Nardò 1999, 171.
[15]A. Costantini, Guida alle masserie del Salento, Lavello-Pz 1999, 159; M. Perrone, Guida alle masserie fortificate di Nardò, Lecce 191, 77. La masseria Zanzara è registrata nel Catasto onciario di Nardò del 1750. Viene così descritta: “Masseria nominata Lo Sazzara consistente in case, capanne, curti, aia, con alberi d’olive fruttiferi e olivastri e cormuni numero 7000 incirca ed in seminativo tt. 281 di terre seminatorie, agresti e macchiose. Confina da scirocco con la masseria Donna Menga, da ponente con la masseria S. Chiara, da levante con beni del barone Massa e da tramontana con altri suoi beni”
[16] ASL, Protocolli notarili N. Bona, 66/16, 1751; F. Tanzi, “Il Cronicon Neritinum”, in Rivista Storica Salentina, anno II, Lecce 1905, 23 n.2.
[17] Ogni anno, in ricorrenza della festività dell’Assunzione, il 15 agosto, ogni canonico doveva recarsi nella chiesa Madre di Nardò e prestare obbedienza al vescovo. Ciascuno doveva un’offerta al vescovo, uguale per tutti, e consistente in una libbra di cera. Vedi C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Le visite pastorali cit., 45.
[18] Archivio della Curia Vescovile di Nardò (ACVN), Atti dell’obbedienza degli anni 1877.1888 (B-164, A-17); Mazzarella, Nardò cit., 62.